  
Il
peccato originale di Silvio Berlusconi di
Ezio Mauro da
La Repubblica del 8 agosto 2003
Come
in una religione dannata, è ormai chiaro che il peccato originale segna
e domina per sempre il destino pubblico di Silvio Berlusconi. E' insieme la vera
causa inconfessabile del suo successo e la ragione ultima della sua dannazione
perpetua, quella che sta andando in scena giorno dopo giorno da un decennio, nel
teatro della politica nazionale e internazionale. Non c'è redenzione possibile,
perché il peccato colpisce al cuore la natura e l'immagine mitologica del
berlusconismo e dunque non può essere ammesso ed emendato senza sbriciolare
per sempre quella macchina titanica di autoesaltazione costruita per trasmettere
un modello ben preciso di moderna leadership populista agli italiani: un leader
che si è fatto da sé, un outsider anche nel mondo del capitalismo,
capace di costruirsi una fortuna dal nulla creando benessere per sé e per
gli altri nell'imprenditorialità, pronto ad un certo punto - per il bene
del Paese - a trasferire queste doti uniche e nuove nel "teatrino" asfittico
della politica, fino a dominarlo, conquistarlo e governarlo rimettendo in piedi
l'Italia con i suoi metodi, il suo talento e il suo sorriso.
Tutto questo sta andando
in pezzi davanti ai processi di Milano, che hanno visto o vedono il presidente
del Consiglio imputato per reati comuni, commessi secondo l'accusa e il Tribunale
ben prima di scendere in campo. E accanto a lui, in un paesaggio politico, imprenditoriale
e morale desolante e miserabile, quei processi vedono muoversi una lobby imprenditoriale,
giudiziaria e forense che comperava le sentenze per i processi nell'interesse
della grande azienda berlusconiana, madre secondo il Tribunale del più
grande episodio di corruzione dell'Italia repubblicana. Va in pezzi, l'immagine
di Berlusconi come imprenditore capace di riedificare l'Italia come ha edificato
il suo impero, non perché i magistrati inseguono e bloccano il Cavaliere
con le loro sentenze di condanna. No. E' bastato, sta bastando molto meno. Una
semplice azione di verità in un edificio fantasmagorico di menzogne e di
false rappresentazioni, di propaganda trasformata in senso comune degli italiani.
Un'operazione
che chiamerò di "disvelamento", come quella fatta dal Tribunale
di Milano scrivendo le motivazioni della sentenza di condanna per Cesare Previti
e i suoi amici nei processi Imi-Sir e Lodo Mondadori. Nessuno
tenta di usare quelle sentenze e quella motivazione per chiedere le dimissioni
di Berlusconi da presidente del Consiglio, perché è la politica
che deve batterlo, se ne è capace, e per la strada maestra, che è
solo quella elettorale. Ma il mondo berlusconiano è impazzito ugualmente,
davanti alla pubblica lettura di quei reati, della loro organizzazione nell'interesse
delle aziende del Premier, della macchina criminale che secondo il Tribunale è
stata messa in piedi per ottenere che anche la giustizia diventasse una merce,
qualcosa che si compera e che si vende, basta fissare il prezzo giusto.
Questo impazzimento si capisce.
Nella corsa disperata per sfuggire al suo passato, Berlusconi
era convinto di essersi messo in salvo seppellendo la sua responsabilità
nella fossa su misura del Lodo Maccanico, che lo mette al riparo dalle sentenze
anche per reati comuni e gravissimi, pur commessi prima dell'avventura politica.
Ma le sentenze non servono, quando viene alla luce il contesto criminale e onnipotente
degli uomini legati al Cavaliere, che per gli interessi delle sue aziende e dunque
suoi corrompevano i magistrati, assoggettavano la giustizia, comperavano le sentenze.
E' così che il "disvelamento", insieme con i reati, certifica
il peccato originale di Berlusconi. Da
oggi, infatti, non c'è solo un problema morale, che chiama in causa il
Cavaliere come beneficiario e possibile mandante dell'operazione Previti. C'è
un problema identitario, ben più grave, che si squaderna davanti agli italiani
in vacanza: che tipo è, dunque, il loro Presidente del Consiglio? Questo
presunto outsider che ha ricevuto le frequenze, e dunque l'autostrada pubblica
dell'impero televisivo, dal suo amico Craxi in cambio di favori che stanno venendo
anch'essi a galla, questo libero imprenditore così insofferente di "teatrini"
e mediazioni, conquistava dunque le aziende con la frode e la corruzione? E questo
moderno liberista, assecondando i metodi svelati dai giudici di Milano e traendone
un diretto vantaggio si rendeva conto di deformare così nello stesso tempo
la democrazia, la giustizia e soprattutto la democrazia economica? Ma che nozione
può avere del mercato un industriale che agisce con calcolo sotto la linea
d'ombra della legge nelle contese capitalistiche più aspre, truffa le regole
del gioco, muove o comunque beneficia di un'organizzazione criminale di altissimo
livello e di forte influenza, pronta a tutto, capace di scrivere le sentenze del
Tribunale nello studio privato degli avvocati del clan? E' questo l'uomo - ripetiamo,
libero da sentenze che lo riguardino, da condanne, da ostacoli giudiziari diretti
- che vorrà e saprà riformare l'economia italiana, fissare finalmente
le regole per un moderno capitalismo, portare il sistema italiano definitivamente
in Europa? Sono
queste le domande a cui Berlusconi deve rispondere, davanti all'opinione pubblica
che ha costruito la sua fortuna politica credendo all'immagine propagandata dalla
moderna mistica politica e televisiva creata dal Cavaliere. In fondo, nel nocciolo
duro, ritorna la questione capitale che l'Economist ha posto una settimana fa
al nostro Presidente del Consiglio: dimostri di non essere un capitalista che
deforma le regole per trarre vantaggi impropri dalla sua posizione politica. Sono
le stesse domande che Repubblica pone da anni, convinta che l'interesse dell'Italia
- di tutta l'Italia - passi attraverso un totale svelamento del mistero glorioso
berlusconiano, in modo che i cittadini possano giudicare e capire davvero che
cosa si nasconde dietro l'intrico del conflitto di interessi. Non solo potere
economico più potere televisivo più potere politico. Ma un certo
tipo di potere economico, che costruisce un particolare potere televisivo e determina
un potere politico del tutto anomalo in Occidente: e che non a caso sta inquietando
l'Europa. Naturalmente,
come gli ha chiesto ieri su questo giornale Giuseppe D'Avanzo, il Cavaliere può
giocare una mossa difensiva clamorosa, che cambierebbe il quadro: può dire
che Previti per lui era solo un avvocato, sia pure plenipotenziario nel suo impero,
e che nulla sapeva dei metodi e dei modi usati dall'amico Cesare per ottenere
quelle sentenze così importanti per Fininvest. Ma deve dimostrarlo, e pare
difficile. Soprattutto, deve avere il coraggio di farlo, e sembra improbabile.
Infine, deve avere la libertà di compiere questo passo: ed è semplicemente
inconcepibile. Il legame tra Previti e Berlusconi è così stretto
che i due si scambiano tragicamente il ruolo di servo e padrone, a turno. Così
intimo da affondare in quella stagione oscura in cui si formò la fortuna
iniziale del Cavaliere e due uomini erano presenti, tecnici e fiduciari insieme:
Dell'Utri e Previti, appunto. Così costringente che se il Cavaliere volesse
oggi disfarsi del suo Cesare dovrebbe spiegare perché quando formò
il suo primo governo in mezzo a cinquanta milioni di cittadini italiani scelse
proprio Previti - con quei metodi e quella concezione della legalità -
come suo Guardasigilli. In realtà, la condanna di Previti racconta la vera
storia di Berlusconi. E rivela il peccato d'origine, che mina alle fondamenta
il mito fondativo dell'avventura imprenditorial-politica del Cavaliere, rovesciando
il monumento ideologico che il berlusconismo si era eretto in vita.
E' a questa minaccia (che
chiama in causa un attore imprevisto e per Berlusconi nevralgico, cioè
l'opinione pubblica interna e internazionale) che reagiscono oggi disperatamente
gli uomini del Cavaliere, non certo alle parole della motivazione che inchioda
Cesare Previti. E reagiscono in una nuova e drammatica prova di forza, tentando
un nuovo sfondamento nei confronti del potere giudiziario, con la promessa-minaccia
ventriloqua di Bondi che annuncia una commissione parlamentare d'inchiesta a settembre
per accertare se la democrazia e la libertà in Italia sono minacciate da
un'"associazione a delinquere a fini eversivi" costituita da una parte
della magistratura, dal mondo politico postcomunista e da settori dell'editoria
con l'obiettivo di "sovvertire le istituzioni democratiche e repubblicane".
E'
il teorema del golpe giudiziario che ritorna. Procedere contro i reati, secondo
giustizia, in nome del popolo italiano, con il massimo di garanzie per gli imputati,
significa tentare un golpe contro il legittimo potere costituito, se le indagini,
gli atti, le requisitorie, le sentenze e le motivazioni riguardano il mondo berlusconiano.
E' una concezione profondamente illiberale, tecnicamente rivoluzionaria, che vuole
il potere intangibile, libero da controlli e sciolto dalle leggi, senza più
un passato, con il leader al di sopra della legge e disuguale rispetto agli altri
cittadini. Ma è anche l'annuncio di una stagione di scontro istituzionale
senza precedenti: con l'esecutivo che si sente minacciato e lancia il legislativo
contro il giudiziario, attraverso l'arma impropria delle commissioni d'inchiesta.
Con la conseguenza che gli indagati - e anche i condannati - giudicheranno i loro
giudici, in un rovesciamento tutto italiano che annulla la separazione dei poteri.
Mentre gli italiani non sapranno più dove sta lo Stato.
Qualcuno spieghi al Presidente
del Consiglio che non si è mai visto in Occidente un partito di maggioranza
relativa che attacca un potere dello Stato, delegittimandolo e additandolo come
eversore ai cittadini. Gli italiani non credono più nella favola ipnotica
di un comunismo italiano impegnato a organizzare golpe insieme con giudici antiberlusconiani.
Quanto ai "settori dell'editoria", se Forza Italia si riferisce a Repubblica
può stare tranquilla. Il Cavaliere ha già provato a conquistare
questo giornale, e oggi si scopre con quali mezzi e con quali metodi lo ha fatto.
Ma non ci è riuscito. Semplicemente perché Repubblica appartiene
e dà voce a un'altra Italia, che non potrà mai essere comprata e
messa sotto dominio, nemmeno ricorrendo ai servizi berlusconiani di Cesare Previti.
Ezio Mauro
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